“Alle cinque del
mattino il paese è già sveglio; l’aria fresca i batte sul volto ancora
sonnolento, mentre guardo incantato l’isoletta verde in mezzo al fiume secco. […]
Dopo un miglio l’erta diventa faticosa, l’aria frizzante, il verde intenso; un
boschetto di abeti scuote le teste esili al disopra delle prime svolte. Perché
ostinarmi in sella? Forse potrei vincere la salita, ma so di avere dinnanzi
dieci erti chilometri e che non potrei superarli tutti”.
Vinto e respinto dall’Appennino! La mia breve ricognizione
del percorso mi vede sconfitto già alla prima vera salita: il passo del
Carnaio. Alfredo mi aveva ben avvisato, ma io – presuntuosamente – credevo di
essere allenato per affrontare quelle asperità, cavalcando circa trenta chili, bici
+ bagaglio (oltre ai miei ottanta di stazza, che dovranno diventare almeno 75,
prima del prossimo tentativo!).
Come sostiene correttamente il rinomato antropologo francese Marc Augé (nel suo bel libro Il bello della bicicletta), rimembrando i suoi
tempi andati quando era spesso sui pedali, “il corpo a
corpo con lo spazio era una prova inedita ed esaltante di solitudine. Il corpo
a corpo con me stesso era un’esperienza intima, scoprivo le mie possibilità e i
miei limiti: non si può barare con la bici. Qualsiasi eccesso presuntuoso viene
immediatamente punito”.
Si, non si può barare con la bici, ed il mio eccesso di
presunzione mi stava punendo gravemente.
È andata così: partito di buon ora da Santa Sofia (come
Alfie, le mie 6 equivalgono infatti alle sue 5 del mattino, non essendoci ai
suoi tempi l’ora legale), ho affrontato con l’aria fresca e frizzante i primi
tornanti.
Poco dopo sono stato sorpassato da un gruppo di giovani ciclisti
(veri atleti, non come il sottoscritto), che probabilmente formavano una
squadra, date le loro divise uguali e bici da corsa in carbonio. Dopo appena un
paio di tornanti li avevo già persi di vista.
Insomma, a pochi chilometri dalla partenza, mi vedevo già
appiedato. Ero preparato all’evento.
Come dico, Alfredo aveva lanciato il monito. Ostinatamente proseguo a piedi,
spingendo il mio pesante fardello. Intanto la temperatura inizia a salire. Ben presto il mio Garmin indica 30°
centigradi e 14% di pendenza. Il passo misura una decina di chilometri.
Ora anche io “salgo adagio” come Alfie, ma purtroppo non per
la “pigra voluttà degli occhi”. Anche io non mi “ostino in sella”. Proseguo a
piedi, trascinandomi il carico che mi segue, come un mulo col suo pesante basto
carico.
Percorro forse un paio di chilometri in questo modo,
riflettendo su questa mia “prima ricognizione”. Un concetto mi si schiarisce
nella mente: non sono in grado di continuare. L’affanno e il sudore sono i segnali
che mi indicano il modestissimo grado di preparazione del mio fisico attempato
ed, evidentemente, ancora sovrappeso. Le uniche a tenere sono le gambe, ma
sento già indurirsi i polpacci in un’anticipazione di crampi.
La decisione è dolorosa: smettere la ricognizione già alla
seconda tappa? Ne avevo previste almeno quattro o cinque. Intendevo giungere a
La Verna e Camaldoli, poi incamminarmi di nuovo verso casa.
Credo sia più prudente rinunciare: ‘barare’ mi produrrebbe
solo guai che mi avrebbero punito ben più gravemente.
Così oggi capisco che "il viaggio è volo ed esercizio in egual misura" come ha scritto il celebre scrittore e viaggiatore Paul Theroux.
Così oggi capisco che "il viaggio è volo ed esercizio in egual misura" come ha scritto il celebre scrittore e viaggiatore Paul Theroux.
Decido di tornare indietro, ma con l’assoluta intenzione di
ritentare presto, non appena il mio allenamento e la mia condizione fisica lo
permettano. Ridurrò il mio peso e quello del mio carico. Tenda e sacco a pelo
resteranno a casa, e rinuncerò a qualche attrezzo e ricambio.
Nulli cedit, è il
motto del mio amico Alfredo, e da lui devo imparare a non cedere di fronte a
niente e nessuno.
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